Di statuette auree ne aveva portate a casa già due da Los Angeles quando arrivò il terzo figlio. Christian, che avrebbe raccolto il testimone artistico. Il tempo ha incoronato entrambi. Premi a uno, incassi da capogiro all’altro. Al di là del gap generazionale, De Sica padre e De Sica figlio hanno entrambi accesso all’Eden degli interpreti della commedia italiana. Eppure, se impressionante è la somiglianza nei tratti che li lega e spesso confonde, abissale è la diversità nell’impronta cinematografica.
Quanto a numeri, sono due fuoriclasse. Vittorio De Sica: 73 anni di vita (di cui 57 di cinema), attore e regista, 4 volte premio Oscar, punta del neorealismo italiano. Il secondo all’attivo: 73 film (7 da regista), 10 tra serie e film tv, 11 programmi tv, 4 spettacoli teatrali. Raffinato umorista l’uno, re della risata leggera l’altro. Multiformi e talentuosi. Viene da pensare a Christian come al fortunato rampollo di una figura di classe. Nei 23 anni che ha trascorso col padre, ha assorbito in casa l’arte della versatilità. Ma è stata forse proprio l’ombra del genitore di successo a spintonarlo altrove. E quella commedia del buonumore che batte sul “demenziale”, incoronando cliché e parodie, è diventata presto la sua arena di gioco.
Li accomunano i sodalizi. Da quello storico di De Sica senior con lo sceneggiatore Cesare Zavattini nascono capisaldi del cinema italiano del dopoguerra: Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951), L’oro di Napoli (1954) e Umberto D. (1952), la pellicola che emoziona ancora Christian, come ha ribadito in più interviste. La sua spalla sul grande schermo è stata, fino al 2005, Massimo Boldi con cui si è barcamenato tra gretto e grottesco, tra equivoci e teatrini all’italiana nei film natalizi d’oro.
Culi all’aria, tradimenti, gaffes e misanderstanding. Innesco di risate spicciole. Per l’italiano medio che si trascina da un appuntamento natalizio all’altro, scaldare la poltrona di un cinema assistendo al dongiovanni di turno che “intrallazza” con la bella mediterranea alle spalle della moglie non significa buttare nel cestino una serata. Ci sono italiani a cui una commedia piace anche se non zooma su una morale (i sensi di colpa dei personaggi di Christian De Sica sono in genere teatrali, finti, esasperati). Pagano un biglietto per scrollarsi di dosso il peso della giornata e fingere di fare la bella vita sul Nilo o in crociera. Non c’è una comicità giusta e una sbagliata, uno humour intelligente e uno per babbei. A chi i giullari, a chi i satirici.
In un libro del 2008, “Figlio di papà”, edito da Mondadori, Christian si confessa. Racconta del genio del padre, che se ne andò quando lui aveva appena 23 anni senza lasciargli nulla (si era perso, giocando tutto sui tavoli verdi dei casinò). Della tempra della madre, la spagnola Maria Mercader. Degli incontri con i grandi: Flaiano, Fellini, Pasolini, Sordi, Risi.
Il “figlio di papà” eredita la grandezza di un cognome. E, scaltramente, sceglie di imboccare la strada dello showbiz, non ombrata dalla statura di Vittorio, lasciando a lui l’alloro e volando basso (si fa per dire), senza condizionamenti, mostri sacri e col soldo facile. Anche il cinema, in fondo, è business e all’uscita dei cinepattoni i box office cantano.
La domanda, però, ronza comunque: come avrebbe commentato papà Vittorio il lavoro di De Sica junior? I più propendono per la “condanna”. Ma forse sarebbe andato al di là. Il cinema è di chi lo guarda. Se riflettere umoristicamente o ridere a crepapelle di macchiette e stereotipi, a noi la scelta. Senza dimenticare che l’evasione, qualche volta, si declina anche in una risata amorale e in una beffa della realtà trita e un po’ sguaiata, senza stile. All’Italia, in effetti, piace anche così.
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